Questo film, tratto dal testo teatrale "Il dio del massacro" di Yasmina Reza, che ha curato anche la sceneggiatura, mette in luce le nevrosi distruttive di una società che sembra non riuscire a fare i conti con la violenza che essa stessa genera, all'interno e all'esterno, e finisce per trasformare le proprie insufficienze culturali in fattori disgreganti della vita civile.
"Carnage" è la storia di due coppie sposate, appartenenti alla classe media americana, che si incontrano per dirimere la lite scoppiata tra i rispettivi figli maschi in un parco cittadino e che si è conclusa con il ricovero in ospedale di uno di essi con la faccia gonfia e un paio di denti rotti.
Inizialmente le due famiglie si sforzano di mantenere un contegno civile e conciliante, ma poco alla volta, anche per la difficoltà di trovare una spiegazione logica per un gesto tanto violento, la rabbia e la frustrazione hanno il sopravvento sul clima cordiale ed emergono inesorabilmente le idiosincrasie, le avversioni e l'istinto di sopraffazione. Alla fine, quello che doveva essere un incontro di riconciliazione, degenera in una zuffa con tanto di urla, pianti e scontri fisici.
I genitori del ragazzino aggressore, i coniugi Cowan, sono una coppia benestante: lui è un avvocato di successo mentre lei è un'operatrice finanziaria dall'aria nervosa e insoddisfatta. Il marito, Alan, interpretato da Christoph Waltz, viene chiamato in continuazione al telefonino dai dirigenti di una grossa casa farmaceutica, i quali rischiano di subire una class-action per aver messo in vendita un farmaco dannoso per la salute. La moglie Nancy, Kate Winslet, nonostante le apparenze, sembra più subire che amare il ruolo di madre e di moglie fedele, e riesce a liberarsi delle sue costrizioni solo grazie all'alcool.
I genitori del ragazzino aggredito, i coniugi Longstreet, se la passano meno bene dei Cowan: lui, Michael, interpretato da John C. Reilly, è un rappresentante di articoli per la casa mentre la moglie Penelope, interpretata da Jodie Foster, è un'aspirante scrittrice appassionata di arte che si barcamena lavorando part-time in una libreria.
Sullo sfondo delle discussioni attorno alla centralità della famiglia e al ruolo dei genitori nell'educazione dei figli si agita la consapevolezza delle violenze che la civiltà occidentale infligge al resto del mondo, in particolare all'Africa, consapevolezza che si manifesta negli sfoghi di Jodie Foster, sempre più furiosi mano a mano che la sua sensibilità di intellettuale e di scrittrice si scontra con l'ostentata indifferenza dei due uomini, i quali, con il passare del tempo, realizzano una sorta di fratellanza di genere, rozza e scurrile, quasi eccitati di fronte all'angoscia della donna, che non sa spiegarsi per quale motivo essi siano così insensibili alle tragedie del Darfour e, forse, non riesce neppure a spiegarsi perché lei se le prenda tanto a cuore.
L'alter ego della Foster è l'avvocato della casa farmaceutica, che in Africa viaggia spesso per lavoro e che, pur avendo visto con i suoi occhi gli orrori che non fanno dormire la scrittrice, li accetta con sereno cinismo, arrivando a pronunciare la frase che da il titolo alla commedia teatrale dalla quale è tratto il film. "E' il dio del massacro che fa la storia" afferma l'avvocato, nel tentativo di chiudere un incontro che si sta facendo sempre più conflittuale; la sua frase, però, ha l'effetto non voluto di scatenare i fantasmi che albergano nella psiche della moglie la quale, esasperata dall'atteggiamento del marito, gli strappa il cellulare e lo getta dentro un vaso pieno d'acqua, provocando lo sconcerto e l'abbattimento del coniuge, come se la sua esistenza fosse veramente legata al funzionamento del telefonino.
L'episodio provoca un momentaneo avvicinamento tra le due donne, ma dura poco perché la voglia di scontro e di divisione della Foster finisce per rovinare presto il clima di armonia appena instaurato.
L'episodio di partenza, l'aggressione al figlio di una delle due coppie, viene progressivamente relegato sullo sfondo, mentre rimane in primo piano la sensazione dell'ineluttabilità del dolore e della sofferenza umana, rafforzata dal corollario amaro che una società come la nostra, che pretende di ignorare i massacri che scatena in Sudan, in Congo o in qualsiasi altro posto, rischia di sprofondare in una nevrosi ossessiva e senza sbocchi, alimentata dall'incapacità di comunicare e di comprendere. Il male che facciamo, quindi, si ritorcerà fatalmente contro di noi, rendendo invivibile l'ambiente in cui ci muoviamo.