Per fortuna ci sono ancora persone che non si rassegnano all'idea che la cultura debba limitarsi a ripetere all'infinito contenuti già logori senza inventare nulla di nuovo. Queste persone, pur non avendo rapporti con prestigiose case editrici e senza comparire nei talk show televisivi, sono convinte che sia possibile esprimere concetti letterari ricchi di attualità, al fine di fornire al pubblico gli elementi necessari per interpretare la realtà presente.
Giuseppe Vanni è uno di questi: insegnante appassionato di poesia, da alcuni anni espone una mostra itinerante per parole e immagini intitolata "Horror Vacui - La grande crisi" dal titolo di una raccolta di poesie da lui stesso composta e ora disponibile anche in formato e-book.
I temi trattati sono quanto di più attuale si possa immaginare: dallo strapotere della finanza, che ha asservito la politica e prodotto l'impoverimento culturale della nostra società, al precariato lavorativo, causa principale della mancanza di stabilità emotiva e psicologica per tante persone, fino alla sterilità dei rapporti umani, segnati, anche nella vita privata, da una preoccupante condizione di incomunicabilità. Tutto ciò come conseguenza di un ordine tecnocratico sempre più piatto e alienante, nel quale solo la razionalità scientifica, da sempre al servizio dell'utile, sembra meritare il benevolo assenso delle elites al potere, mentre il sapere umanistico, al contrario, riesce a sopravvivere solo se accetta di essere declassato a puro ornamento, visto che lo sviluppo delle capacità critiche dell'individuo non viene ritenuta un'attività capace di produrre plus-valore.
Fornire una nuova interpretazione, un nuovo sguardo d'insieme sulle cose, può produrre una visione del mondo innovativa, in grado di fecondare un orizzonte di cambiamento. Per adesso, però, predomina la disillusione e la fatica, sia di comunicare che di farsi ascoltare: ne sono testimonianza "Transizione", "Stabilità", la criptica "Afasia", "Allucinazione" e "Contagio", che manifestano l'amara impressione di essere stati espropriati del bene della democrazia per essere gettati in una dimensione scialba e insignificante, nella quale le poche voci che si ergono per spezzare la monotonia del quotidiano vengono messe a tacere dagli ingranaggi di una tecnocrazia impietosa. Conta solo mantenere le condizioni di stabilità necessarie a garantire gli investimenti delle multinazionali e delle grandi banche, tutto il resto viene messo da parte, complice attiva un'umanità che sembra incapace di fare i conti con i dilemmi e le angosce dell'esistenza, presa com'è dal perseguimento del mero interesse economico o dalle preoccupazioni concrete della vita quotidiana.
"Un lungo esilio vissuto in assenza di ragione" recitano i versi di "Default; "Delocalizzazione" è una denuncia dell'economia globalizzata che, portando lo sfruttamento dell'uomo alle estreme conseguenze, ha reso precaria persino la schiavitù; "Dipendenza" esplicita il topos dell'assenza, percepita come un'intuizione universale del vuoto che ci circonda: vuoto incolmabile prodotto dalla forza del nostro desiderio che, conducendoci attraverso la coscienza della morte e l'accettazione del Nulla, fonda nell'uomo la spiritualità, estremo limite della speranza di sfuggire al deserto generato dalla "Finanza globale".
E poi ancora "Finzione", "Frammenti", "Identità", "In silenzio", "Illuminazioni", sono testimonianze crude e autentiche dell'inganno generato dal privatismo esasperato dei nostri anni, l'illusione cioè che la vita privata possa inglobare le diverse facce dell'esistenza umana e riempire quest'ultima di un significato che, al contrario, sembra scivolare via in continuazione, come un sogno al risveglio mattutino. La ricerca di senso si rivela così una chimera mandata in frantumi dall'onnipresente invadenza dei vincoli finanziari, il cui rigore castrante diviene metafora dell'aridità dei rapporti umani, fuori e dentro l'ambito familiare.
La poesia di Giuseppe Vanni è un'occasione importante per fare i conti con i tormenti e le ansie dell'era presente, una possibilità di arricchire un soggiorno turistico sulla Riviera romagnola, tra una cena di pesce e una puntata nell'entroterra.
La mostra per poesie e immagini dal titolo "Horror Vacui - La grande crisi" a cura di Giuseppe Vanni, Matteo Serafini e Valerio Denicolò si terrà presso la Galleria Comunale Santa Croce, a Cattolica, dal 12 aprile al 4 maggio. Apertura: sabato e domenica dalle 17 alle 20.
Per chi volesse acquistare la raccolta di poesie, l'edizione cartacea del libro sarà disponibile presso la Galleria Santa Croce durante la mostra, mentre l'edizione digitale è acquistabile ai seguenti link:
http://www.ultimabooks.it/horror-vacui-la-grande-crisi
http://www.amazon.it/Horror-vacui-grande-Giuseppe-Vanni-ebook/dp/B00HL9MZVA
http://books.google.it/books/about/Horror_vacui_la_grande_crisi.html?id=25zjAgAAQBAJ&redir_esc=y
lunedì 7 aprile 2014
L'orrore del vuoto in mostra a Cattolica
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domenica 5 gennaio 2014
Armi e bagagli dalle Brigate Rosse
Enrico Fenzi è un ex docente di letteratura dell'Università di Genova che verso la fine degli anni settanta decide di entrare nelle Brigate Rosse, partecipando alla "gambizzazione" di Carlo Castellano, un dirigente dell'Ansaldo vicino al Pci.
Arrestato nella primavera del '79, viene rilasciato per insufficienza di prove, ma in carcere fa conoscenza con gli esponenti del nucleo storico delle Br, Renato Curcio ed Enrico Franceschini, e quando esce è diventato ormai un punto di riferimento per tutti coloro che gravitano nell'orbita dell'estrema sinistra. La parentela con il leader degli "irriducibili" Giovanni Senzani, del quale Fenzi ha sposato la sorella, lo spinge a fare il grande salto verso la clandestinità: così nel 1981 lascia il lavoro e la famiglia (la moglie è in attesa del terzo figlio) per recarsi a Milano dove gli viene affidato l'incarico di riorganizzare la colonna Walter Alasia in collaborazione con Mario Moretti, altro esponente storico del brigatismo rosso.
Da notare che in questo periodo, mentre è ricercato dalle forze dell'ordine, Fenzi trova il tempo di concludere un saggio su Dante per una casa editrice, di consegnarlo e riscuotere il relativo compenso.
In questo libro, Armi e Bagagli, pubblicato nel 1987, Enrico Fenzi ripercorre le tappe della sua militanza cercando di chiarire ancora una volta le ragioni che lo hanno portato ad abbracciare la lotta armata, passando dalla tranquilla vita dello studioso di storia e di letteratura a quella tumultuosa di terrorista latitante, finendo per consumare in carcere la sua esperienza: come per tanti altri della sua generazione, nella sua formazione è decisiva l'esplosione della contestazione studentesca nel '68, il coinvolgimento attivo nelle assemblee e i primi contatti con militanti già su posizioni molto più radicali delle sue riguardo allo Stato, al Pci e al ruolo della classe operaia nel conflitto sociale.
Scritto in uno stile densamente soggettivo, per nulla incline alle divagazioni ideologiche, Armi e Bagagli è una sorta di diario esistenziale con il quale l'autore tenta di riafferrare, pur ribadendo la dissociazione risalente al 1982, le ragioni della sua adesione alla lotta armata, al fine di evitare che la sconfitta storica, politica e giudiziaria del terrorismo di sinistra si trasformi in una discesa a precipizio verso l'inferno dell'autodistruzione, conseguenza inevitabile della rimozione del nesso tra ciò che si è fatto e del perché lo si è fatto.
Partendo dalla constatazione che solo i folli ignorano i motivi delle proprie azioni, l'autore riannoda i fili della propria partecipazione alle Brigate Rosse, a partire dal primo contatto con la cellula genovese nell'estate del 1976, dopo l'omicidio del giudice Coco, per passare attraverso la collaborazione con le frange più radicali della classe operaia del capoluogo ligure, fino ad arrivare all'eliminazione di Guido Rossa, un sindacalista della Cgil che denuncia alcuni operai che distribuiscono volantini delle Br dentro l'Italsider, episodio che segnerà l'inizio del declino delle formazioni di estrema sinistra in tutta Italia.
Emerge da queste pagine tormentate un bisogno di assegnare un senso diverso e più profondo alla propria militanza politica, che si coglie fin da subito nelle righe con le quali Fenzi commenta il clima di euforia creatosi all'interno della sinistra genovese in seguito all'omicidio del giudice Coco : "Era un gran parlare, riunirsi, ammiccare, alludere: era un gran girare a vuoto che io detestavo. Nella mia grossolanità, trovavo la doppiezza dei compagni più sgradevole di quella dei benpensanti. Tutto quel compiacimento mi pareva impastato di paura, di opportunismo: una moda dietro la quale non c'era niente, un tifo tanto sciocco quanto inutile. [...] Pensavo solo che, bene o male, quelli fossero ormai i termini della questione, quella l'unica scommessa di fronte alla quale occorreva prendere partito, magari anche così, a occhi chiusi...prendere o lasciare. E io, a differenza di quelli che vedevo scambiarsi sorrisi e ammicchi su Coco, non volevo affatto lasciare."
Per arrivare infine ad asserire, nell'appendice intitolata "Vent'anni dopo", redatta alla fine degli anni novanta: "...nessuna storia del movimento e tanto meno di quello del '77 è in realtà possibile, nella coscienza di tutti, direi, se si pretendesse di passare sotto silenzio o mettere tra parentesi quella che, piaccia o meno, è stata l'espressione più radicale e conseguente che i movimenti nati a partire dal '68 hanno finito per assumere: quella della lotta armata."
Il libro quindi si chiude con un'orgogliosa rivendicazione del ruolo svolto dalla lotta armata nei conflitti sociali e politici dell'Italia a cavallo tra gli anni settanta e gli anni ottanta, quando era in atto un processo di ristrutturazione della grande industria che aveva come obiettivo quello di espellere le frange più radicali e combattive della classe operaia dai centri nevralgici dell'economia: in questo contesto, secondo Fenzi, la violenza era l'unica strada per opporsi a questo tentativo. Questa, almeno, sembra essere la giustificazione che l'autore fornisce dell'esperienza storica del terrorismo, negando legittimità a quelle componenti che negli stessi anni si battevano pacificamente per il cambiamento e che da sempre sostengono che il terrorismo spinse l'intero movimento in una strada senza uscita.
Infine l'autore, quasi beffardamente, sostiene che lo scontro con il Pci avvenuto negli anni settanta, e in particolare con le correnti riformiste di Emilia e Toscana, fu salutare in primo luogo per lo stato maggiore del principale partito comunista dell'Occidente, che ebbe così la possibilità di fare subito i conti con le componenti più radicali; questo, a giudizio di Fenzi, ha facilitato molto la transizione seguita alla fine del comunismo nell'Europa dell'Est, perché il peso di quella rottura sarebbe stato molto più doloroso se si fosse consumata mentre le componenti più combattive del proletariato industriale fossero state ancora presenti all'interno del partito.
Il libro chiude così, con questo linguaggio criptico e sibillino, la rievocazione umana ed esistenziale di quasi quarant'anni di storia politica italiana.
Arrestato nella primavera del '79, viene rilasciato per insufficienza di prove, ma in carcere fa conoscenza con gli esponenti del nucleo storico delle Br, Renato Curcio ed Enrico Franceschini, e quando esce è diventato ormai un punto di riferimento per tutti coloro che gravitano nell'orbita dell'estrema sinistra. La parentela con il leader degli "irriducibili" Giovanni Senzani, del quale Fenzi ha sposato la sorella, lo spinge a fare il grande salto verso la clandestinità: così nel 1981 lascia il lavoro e la famiglia (la moglie è in attesa del terzo figlio) per recarsi a Milano dove gli viene affidato l'incarico di riorganizzare la colonna Walter Alasia in collaborazione con Mario Moretti, altro esponente storico del brigatismo rosso.
Da notare che in questo periodo, mentre è ricercato dalle forze dell'ordine, Fenzi trova il tempo di concludere un saggio su Dante per una casa editrice, di consegnarlo e riscuotere il relativo compenso.
In questo libro, Armi e Bagagli, pubblicato nel 1987, Enrico Fenzi ripercorre le tappe della sua militanza cercando di chiarire ancora una volta le ragioni che lo hanno portato ad abbracciare la lotta armata, passando dalla tranquilla vita dello studioso di storia e di letteratura a quella tumultuosa di terrorista latitante, finendo per consumare in carcere la sua esperienza: come per tanti altri della sua generazione, nella sua formazione è decisiva l'esplosione della contestazione studentesca nel '68, il coinvolgimento attivo nelle assemblee e i primi contatti con militanti già su posizioni molto più radicali delle sue riguardo allo Stato, al Pci e al ruolo della classe operaia nel conflitto sociale.
Scritto in uno stile densamente soggettivo, per nulla incline alle divagazioni ideologiche, Armi e Bagagli è una sorta di diario esistenziale con il quale l'autore tenta di riafferrare, pur ribadendo la dissociazione risalente al 1982, le ragioni della sua adesione alla lotta armata, al fine di evitare che la sconfitta storica, politica e giudiziaria del terrorismo di sinistra si trasformi in una discesa a precipizio verso l'inferno dell'autodistruzione, conseguenza inevitabile della rimozione del nesso tra ciò che si è fatto e del perché lo si è fatto.
Partendo dalla constatazione che solo i folli ignorano i motivi delle proprie azioni, l'autore riannoda i fili della propria partecipazione alle Brigate Rosse, a partire dal primo contatto con la cellula genovese nell'estate del 1976, dopo l'omicidio del giudice Coco, per passare attraverso la collaborazione con le frange più radicali della classe operaia del capoluogo ligure, fino ad arrivare all'eliminazione di Guido Rossa, un sindacalista della Cgil che denuncia alcuni operai che distribuiscono volantini delle Br dentro l'Italsider, episodio che segnerà l'inizio del declino delle formazioni di estrema sinistra in tutta Italia.
Emerge da queste pagine tormentate un bisogno di assegnare un senso diverso e più profondo alla propria militanza politica, che si coglie fin da subito nelle righe con le quali Fenzi commenta il clima di euforia creatosi all'interno della sinistra genovese in seguito all'omicidio del giudice Coco : "Era un gran parlare, riunirsi, ammiccare, alludere: era un gran girare a vuoto che io detestavo. Nella mia grossolanità, trovavo la doppiezza dei compagni più sgradevole di quella dei benpensanti. Tutto quel compiacimento mi pareva impastato di paura, di opportunismo: una moda dietro la quale non c'era niente, un tifo tanto sciocco quanto inutile. [...] Pensavo solo che, bene o male, quelli fossero ormai i termini della questione, quella l'unica scommessa di fronte alla quale occorreva prendere partito, magari anche così, a occhi chiusi...prendere o lasciare. E io, a differenza di quelli che vedevo scambiarsi sorrisi e ammicchi su Coco, non volevo affatto lasciare."
Per arrivare infine ad asserire, nell'appendice intitolata "Vent'anni dopo", redatta alla fine degli anni novanta: "...nessuna storia del movimento e tanto meno di quello del '77 è in realtà possibile, nella coscienza di tutti, direi, se si pretendesse di passare sotto silenzio o mettere tra parentesi quella che, piaccia o meno, è stata l'espressione più radicale e conseguente che i movimenti nati a partire dal '68 hanno finito per assumere: quella della lotta armata."
Il libro quindi si chiude con un'orgogliosa rivendicazione del ruolo svolto dalla lotta armata nei conflitti sociali e politici dell'Italia a cavallo tra gli anni settanta e gli anni ottanta, quando era in atto un processo di ristrutturazione della grande industria che aveva come obiettivo quello di espellere le frange più radicali e combattive della classe operaia dai centri nevralgici dell'economia: in questo contesto, secondo Fenzi, la violenza era l'unica strada per opporsi a questo tentativo. Questa, almeno, sembra essere la giustificazione che l'autore fornisce dell'esperienza storica del terrorismo, negando legittimità a quelle componenti che negli stessi anni si battevano pacificamente per il cambiamento e che da sempre sostengono che il terrorismo spinse l'intero movimento in una strada senza uscita.
Infine l'autore, quasi beffardamente, sostiene che lo scontro con il Pci avvenuto negli anni settanta, e in particolare con le correnti riformiste di Emilia e Toscana, fu salutare in primo luogo per lo stato maggiore del principale partito comunista dell'Occidente, che ebbe così la possibilità di fare subito i conti con le componenti più radicali; questo, a giudizio di Fenzi, ha facilitato molto la transizione seguita alla fine del comunismo nell'Europa dell'Est, perché il peso di quella rottura sarebbe stato molto più doloroso se si fosse consumata mentre le componenti più combattive del proletariato industriale fossero state ancora presenti all'interno del partito.
Il libro chiude così, con questo linguaggio criptico e sibillino, la rievocazione umana ed esistenziale di quasi quarant'anni di storia politica italiana.
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