Enrico Fenzi è un ex docente di letteratura dell'Università di Genova che verso la fine degli anni settanta decide di entrare nelle Brigate Rosse, partecipando alla "gambizzazione" di Carlo Castellano, un dirigente dell'Ansaldo vicino al Pci.
Arrestato nella primavera del '79, viene rilasciato per insufficienza di prove, ma in carcere fa conoscenza con gli esponenti del nucleo storico delle Br, Renato Curcio ed Enrico Franceschini, e quando esce è diventato ormai un punto di riferimento per tutti coloro che gravitano nell'orbita dell'estrema sinistra. La parentela con il leader degli "irriducibili" Giovanni Senzani, del quale Fenzi ha sposato la sorella, lo spinge a fare il grande salto verso la clandestinità: così nel 1981 lascia il lavoro e la famiglia (la moglie è in attesa del terzo figlio) per recarsi a Milano dove gli viene affidato l'incarico di riorganizzare la colonna Walter Alasia in collaborazione con Mario Moretti, altro esponente storico del brigatismo rosso.
Da notare che in questo periodo, mentre è ricercato dalle forze dell'ordine, Fenzi trova il tempo di concludere un saggio su Dante per una casa editrice, di consegnarlo e riscuotere il relativo compenso.
In questo libro, Armi e Bagagli, pubblicato nel 1987, Enrico Fenzi ripercorre le tappe della sua militanza cercando di chiarire ancora una volta le ragioni che lo hanno portato ad abbracciare la lotta armata, passando dalla tranquilla vita dello studioso di storia e di letteratura a quella tumultuosa di terrorista latitante, finendo per consumare in carcere la sua esperienza: come per tanti altri della sua generazione, nella sua formazione è decisiva l'esplosione della contestazione studentesca nel '68, il coinvolgimento attivo nelle assemblee e i primi contatti con militanti già su posizioni molto più radicali delle sue riguardo allo Stato, al Pci e al ruolo della classe operaia nel conflitto sociale.
Scritto in uno stile densamente soggettivo, per nulla incline alle divagazioni ideologiche, Armi e Bagagli è una sorta di diario esistenziale con il quale l'autore tenta di riafferrare, pur ribadendo la dissociazione risalente al 1982, le ragioni della sua adesione alla lotta armata, al fine di evitare che la sconfitta storica, politica e giudiziaria del terrorismo di sinistra si trasformi in una discesa a precipizio verso l'inferno dell'autodistruzione, conseguenza inevitabile della rimozione del nesso tra ciò che si è fatto e del perché lo si è fatto.
Partendo dalla constatazione che solo i folli ignorano i motivi delle proprie azioni, l'autore riannoda i fili della propria partecipazione alle Brigate Rosse, a partire dal primo contatto con la cellula genovese nell'estate del 1976, dopo l'omicidio del giudice Coco, per passare attraverso la collaborazione con le frange più radicali della classe operaia del capoluogo ligure, fino ad arrivare all'eliminazione di Guido Rossa, un sindacalista della Cgil che denuncia alcuni operai che distribuiscono volantini delle Br dentro l'Italsider, episodio che segnerà l'inizio del declino delle formazioni di estrema sinistra in tutta Italia.
Emerge da queste pagine tormentate un bisogno di assegnare un senso diverso e più profondo alla propria militanza politica, che si coglie fin da subito nelle righe con le quali Fenzi commenta il clima di euforia creatosi all'interno della sinistra genovese in seguito all'omicidio del giudice Coco : "Era un gran parlare, riunirsi, ammiccare, alludere: era un gran girare a vuoto che io detestavo. Nella mia grossolanità, trovavo la doppiezza dei compagni più sgradevole di quella dei benpensanti. Tutto quel compiacimento mi pareva impastato di paura, di opportunismo: una moda dietro la quale non c'era niente, un tifo tanto sciocco quanto inutile. [...] Pensavo solo che, bene o male, quelli fossero ormai i termini della questione, quella l'unica scommessa di fronte alla quale occorreva prendere partito, magari anche così, a occhi chiusi...prendere o lasciare. E io, a differenza di quelli che vedevo scambiarsi sorrisi e ammicchi su Coco, non volevo affatto lasciare."
Per arrivare infine ad asserire, nell'appendice intitolata "Vent'anni dopo", redatta alla fine degli anni novanta: "...nessuna storia del movimento e tanto meno di quello del '77 è in realtà possibile, nella coscienza di tutti, direi, se si pretendesse di passare sotto silenzio o mettere tra parentesi quella che, piaccia o meno, è stata l'espressione più radicale e conseguente che i movimenti nati a partire dal '68 hanno finito per assumere: quella della lotta armata."
Il libro quindi si chiude con un'orgogliosa rivendicazione del ruolo svolto dalla lotta armata nei conflitti sociali e politici dell'Italia a cavallo tra gli anni settanta e gli anni ottanta, quando era in atto un processo di ristrutturazione della grande industria che aveva come obiettivo quello di espellere le frange più radicali e combattive della classe operaia dai centri nevralgici dell'economia: in questo contesto, secondo Fenzi, la violenza era l'unica strada per opporsi a questo tentativo. Questa, almeno, sembra essere la giustificazione che l'autore fornisce dell'esperienza storica del terrorismo, negando legittimità a quelle componenti che negli stessi anni si battevano pacificamente per il cambiamento e che da sempre sostengono che il terrorismo spinse l'intero movimento in una strada senza uscita.
Infine l'autore, quasi beffardamente, sostiene che lo scontro con il Pci avvenuto negli anni settanta, e in particolare con le correnti riformiste di Emilia e Toscana, fu salutare in primo luogo per lo stato maggiore del principale partito comunista dell'Occidente, che ebbe così la possibilità di fare subito i conti con le componenti più radicali; questo, a giudizio di Fenzi, ha facilitato molto la transizione seguita alla fine del comunismo nell'Europa dell'Est, perché il peso di quella rottura sarebbe stato molto più doloroso se si fosse consumata mentre le componenti più combattive del proletariato industriale fossero state ancora presenti all'interno del partito.
Il libro chiude così, con questo linguaggio criptico e sibillino, la rievocazione umana ed esistenziale di quasi quarant'anni di storia politica italiana.
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