venerdì 12 luglio 2013

I buoni lo sognano i cattivi lo fanno - Robert Simon

"Non c'è niente di più facile che condannare un malvagio, niente di più difficile che capirlo."
Questa frase di Dostoevskij in calce a uno dei capitoli del libro può essere considerata la traccia del saggio scritto dallo psichiatra americano Robert Simon e pubblicato da Raffaello Cortina Editore: entrare nella mente di coloro che compiono atti criminali per comprenderne il percorso evolutivo che li ha portati a infrangere le regole della civiltà e della legalità. Secondo l'autore, infatti, i pensieri di odio, sfruttamento, crudeltà, dominio e violenza che albergano nella psiche degli assassini seriali sono comuni a molte persone, che li covano in silenzio senza mai osare metterli in pratica, perché in loro scattano meccanismi di autodifesa che ne impediscono la realizzazione concreta.

Il metodo proposto da Robert Simon per addentrarsi nei labirinti mentali dei "cattivi" è quello dell'empatia, cioè dell'immedesimazione nelle fantasie e nell'immaginazione dei criminali, un metodo che rivela sorprendentemente come spesso i "buoni" abbiano fantasie analoghe a quelle di chi delinque, cioè sognino di fare ciò che i "cattivi" sovente mettono in pratica. La differenza consiste solo nel grado di intensità delle fantasie, che nel caso di coloro che commettono atti criminali raggiunge una tale veemenza da rendere impossibile al soggetto sottrarsi alla loro attuazione. Il punto di partenza dell'autore è che le persone "cattive" possano apparire molto simili a noi nella vita quotidiana poiché la psicopatologia include anche i caratteri della normalità, così come la normalità, ovvero la salute mentale, include anche l'accettazione di una dose di malattia o di follia.

"La tesi che fra buoni e cattivi esista soltanto una distinzione sottile è difficile da accettare per molte persone. Per alcuni di coloro che si considerano buoni, l'idea stessa è infamante. Tuttavia, ritengo che la convinzione che noi siamo esseri buoni e che la malvagità esista soltanto all'esterno sia puramente illusoria, un'illusione che però alimenta il motore del pregiudizio e della discriminazione ... Nel corso del libro cerco in svariati modi di trovare una risposta a un interrogativo difficile, se non impossibile: perché i cattivi fanno ciò che i buoni si limitano a sognare?... Il libro, infatti, si fonda sull'idea che, una volta che avremo riconosciuto come non esista un abisso a separare i "buoni" dai "cattivi", saremo in grado di guardare adeguatamente dentro noi stessi, anziché all'esterno [perché] ...  i demoni dell'uomo prosperano nell'oscurità. Fare luce su di essi è certo un compito arduo. Tuttavia la quintessenza della natura umana è proprio la capacità di riflettere su noi stessi, di svelare e comprendere i nostri demoni, per imbrigliarli e utilizzarli in modo proficuo. I criminali non sanno farlo: sono incredibilmente carenti riguardo a capacità di autoriflessione e autocontrollo."

Questo passaggio, tratto dall'introduzione, chiarisce definitivamente i motivi di questo lungo viaggio nell'inferno della mente umana popolato da psicopatici, stupratori, serial killer, guru religiosi che si fanno carnefici dei propri adepti e impiegati ultra quarantenni che, in preda a un raptus di follia generato dall'angoscia di una condizione senza prospettive, si trasformano in macchine assassine e sterminano colleghi e datori di lavoro. L'autore introduce e svolge ogni tappa di questo percorso utilizzando numerosi esempi frutto della sua esperienza professionale, riguardanti sia coloro che hanno commesso azioni sinistre, sia coloro che le hanno subite, divenendo vittime di una violenza tanto brutale quanto, all'apparenza, ingiustificata.

Uno dei capitoli più interessanti del libro è dedicato a quel genere di abusi messo in atto dai "professionisti dell'aiuto", una categoria che comprende avvocati, ecclesiastici, insegnanti, medici, psicoterapeuti e tutti coloro che forniscono una prestazione di tipo assistenziale ai propri pazienti: un tipo di crimine particolarmente odioso perché sfrutta, e tradisce, il capitale di fiducia che ogni persona in difficoltà ripone nell'operatore a cui si rivolge per tentare di superare un momento di crisi. Purtroppo, chi mette la propria mente nelle mani di un professionista ha la tendenza ad abbassare la soglia di attenzione e di diffidenza che ognuno di noi prova di fronte ad un estraneo, finendo per trovarsi in una situazione di grande vulnerabilità psicologica. Così accade che coloro i quali cercano aiuto si trovino sospinti, senza accorgersene, in una condizione di dipendenza psicologica fino ai limiti della schiavitù, che può condurli a uno stato di disperazione e al suicidio.

Il fatto che questo tipo di abusi, che negli Stati Uniti pare siano molto frequenti, siano commessi da persone rispettabili, cioè regolarmente abilitati all'esercizio della loro professione, induce a riflettere su quanto potenti siano i demoni interiori che albergano in ogni individuo, se sono capaci di spingerlo a compiere atti criminali infamanti non appena le condizioni esterne lo consentono, e dimostra come i limiti imposti dalla società al comportamento umano siano molto più labili di quanto non appaiano nella realtà.

venerdì 5 luglio 2013

(a)Simmetria comunicativa

L'articolo che segue non è mio, ma del linguista Raffaele Simone. E' apparso sulla rivista "Italiano & Oltre" nel lontano 1992 e lo ripropongo perché il contenuto mi sembra fortemente attuale, oltre che  premonitore.


Qualche tempo fa, in treno da Milano a Roma, sono stato svegliato da un trillo un po' smorzato ma sensibile. Ho aperto gli occhi e ho visto il signore seduto di fronte a me che tirava fuori dalla borsa un telefonino portatile; dopo i soliti convenevoli, si svolgeva una conversazione più o meno così: "Adesso stiamo passando per Firenze" - battuta dell'ignoto interlocutore - e poi "Si va bene ti richiamo quando sono a Roma".


L'assoluta inessenzialità di questa conversazione mi ha ricordato un altro fatto somigliante, che mi era capitato in un ristorante: un signore entrò col telefono all'orecchio e si sedette biascicandoci dentro qualcosa; allungando l'orecchio sentii che diceva: "Sì sì proprio mò me sto a séde" (traduzione per chi non conoscesse il romanesco: "Sì sì mi seggo proprio adesso") e chiudeva la comunicazione.

Che cosa c'è in queste microconversazioni per telefonino che possa interessare ai lettori di "Italiano, e oltre"? C'è, secondo me, l'indizio di un mutamento in atto. Non cambiano infatti solo le lingue; cambiano anche i modi di usarle e i mezzi per farle circolare, e, più indietro nel tempo, un mutamento della stessa natura era stato il telefono. Oggi, la ruota delle modalità di trasmissione del parlato e del linguaggio si è rimessa a girare e la novità del giorno è il telefonino.

Che cosa cambia il telefonino nelle nostre abitudini comunicative? Almeno  due cose: a) altera il rapporto tra il costo del mezzo e il valore del fine (formula solenne che ridurrò in soldoni tra un attimo); b) modifica il regime di riservatezza che è tipico di ogni conversazione. Cominciamo dal primo punto.

Siccome la conversazione verbale è un bene immateriale, che non si può né pesare né vendere a chili, per diffonderla bisogna scegliere mezzi proporzionali, come costo, al valore pratico della comunicazione stessa. Sarebbe assurdo se, per mandare alla nonna una cartolina di auguri dal mare, scegliessi il corriere DHL; allo stesso modo, sarebbe privo di senso che telefonassi in Australia per dire che ora è in Italia in un dato momento (salvo che, per qualche ragione, tutti gli orologi australiani non fossero andati in malora di colpo). Certo, questa regola di economia comunicativa elementare viene spesso violata, ma quasi sempre "pour cause": gli adolescenti che fanno torrenziali telefonate interurbane per mormorarsi le loro prime novità amorose hanno una buona ragione per (fare) spendere decine di migliaia di lire; e se, invece che alla nonna, la cartolina dal mare la mandassimo ad una o (un) amante ardentemente passionale, la spedizione via DHL diventerebbe indispensabile.


La conversazione via telefonino viola tutte le regole e le restrizioni di questa economia comunicativa. Essendo costosissimo a comprarsi e a usarsi, ci aspetteremmo di trovarlo in mano di manager potenti, di politici lacerati dagli impegni e dalle decisioni, o di militari in zona operativa. Nulla di più falso: in realtà lo vediamo in mano a persone assolutamente qualunque, spesso impegnate (come i due di cui ho riferito) più in spente radiocronache delle loro ovvietà che nella trasmissione di decisioni da eseguire in tempo reale. La poca esperienza che mi sono fatto in questo campo mi lascia pensare, inoltre, che queste telefonate servano spesso più ad annunciare telefonate vere (quelle che si fanno da un telefono da tavolo) che a trasmettere messaggi autentici.

Ma fin qui, si dirà, poco male: sono fatti loro, e non ci riguardano più che tanto. Di maggior interesse pubblico è la seconda delle modificazioni che il telefonino sta inducendo. La conversazione è tenuta normalmente riservata, fatta cioè in modo tale che nessuno la senta. Non sta scritto da nessuna parte che debba essere così, ma di fatto la riservatezza è talmente generale che in moltissime lingue esistono motti e frasi che invitano a rispettarla: da "fatti i fatti tuoi" a "pensa a te", a "mind your business" ecc., la riservatezza, se non è praticata da tutti, è almeno teorizzata come una virtù. Per conseguenza gli impianti telefonici di tutto il mondo sono fatti in modo da consentire una zona di rispetto alla conversazione: le cabine telefoniche (da quelle bellissime dell'Inghilterra di  una volta a quelle più somiglianti a ghigliottine dell'Italia di oggi), i <<gusci>> in cui si infila la testa per sentire meglio e non farsi sentire, e via discorrendo.

Ognuno di noi si risentirebbe se la riservatezza di una sua conversazione, anche assolutamente candida, fosse violata da qualcuno. Si tratta forse di una forma di discrezione biologica, la stessa che ci spinge a infastidirci se qualcuno, a qualche distanza, legge il <<nostro>> giornale. Devo credere, quindi, che tra le tanto lodate massime di conversazione di Grice bisognerebbe introdurne un'altra che chiamerò (con la solennità un po' futile di cui alcuni linguisti si fanno schermo) "massima della riservatezza bidirezionale", e che potrebbe dire più o meno così: "parla in modo da non essere ascoltato se non da chi vuoi tu e ricevi in modo da non ascoltare se non chi ti sta parlando".

Ora, il telefonino è  una pericolosa crepa nel rispetto della massima di riservatezza bidirezionale. Chi lo usa, oltre a dire facilmente scemenze, è portato a dirle in faccia alla gente, facendosi sentire, senza costruire alcuno spazio di rispetto comunicativo attorno a sé. Troviamo gente che usa il telefonino al bar, per la strada, sui marciapiedi, nei negozi; praticamente ovunque. Tutti ci raccontano i fatti loro, impedendoci di applicare anche solo unidirezionalmente la massima di riservatezza, e il trend andrà accentuandosi via via che il costo di acquisto e di uso di questi aggeggi si ridurrà.

Questa mancanza di riservatezza è dovuta, per ora, al fatto che il telefonino è relativamente raro, e quindi opera come status symbol: le persone che usandolo fanno sapere a tutti quel che dicono, in realtà trasmettono un solo messaggio sociale: "io ce l'ho e voi no", e la soddisfazione per questa semplice proposizione non detta deve essere tale da giustificare largamente la spesa. Possiamo trovare una spiegazione di questo uso del telefonino addirittura nella Logica di Port-Royal (1662 cap. XX): "lo spirito degli uomini non è solo naturalmente amante di sé, ma è anche naturalmente geloso, invidioso e maligno nei confronti degli altri; solo con pena tollera ch'essi abbiano qualche vantaggio perché li desidera tutti per sé".

Che speranza abbiamo di salvarci dalla nuova invasione di scemenze, di microprovocazioni sociali e di violazione della riservatezza, a cui il telefono sta aprendo le porte? Poca, credo, anche se per ora la considerazione in cui la gente (specie quella che non ce l'ha) tiene questo aggeggio si nota dal termine con cui si è finito per indicarlo: niente più che "telefonino".